«Io vi darò parola e sapienza» Commento al Vangelo del 13 novembre 2016, XXXIII domenica del T.O.

Ultima domenica del tempo ordinario. E con un linguaggio piuttosto colorito la liturgia della Parola ci aiuta a guardare al prossimo futuro, il futuro di Dio. Il linguaggio e le immagini paradossali e apocalittici che troviamo sia nella prima lettura del profeta Malachia, sia nel vangelo di Luca non hanno certamente lo scopo di spaventare nessuno, se non di rendere bene l’idea di un avvenire in potenza, di un tempo che si sta instaurando, di un momento che segna il passaggio, appunto da un tempo all’altro. Più che altro, l’idea che si vuol dare è quella del cammino, o se vogliamo, del pellegrinaggio. Un pellegrinaggio che, dopo tanto faticare, giunge alla sua conclusione tagliando finalmente il traguardo proposto all’inizio del cammino. 
Dove porta questo cammino? Qual è l’obiettivo del pellegrinaggio interiore della vita cristiana? La pericope lucana inizia subito con l’immagine del tempio: «Mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi». Il tempio. Di quale tempio si parla, visto che Gesù rimanda ad una sua distruzione, quando non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta? Non si tratta di avere una meta fisica, quanto una interiore, spirituale. È la meta del cuore. È il tempio del cuore misericordioso di Dio. È quel cuore che il credente in Cristo è chiamato a raggiungere. Non è per nulla facile. Per questo nella seconda lettura san Paolo ai Tessalonicesi si rivolgeva con queste parole: «sapete in che modo dovete prenderci a modello». 
Non è che l’apostolo delle genti si autoesalti presentandosi come modello da imitare, ma è ben consapevole del cambiamento avvenuto nella sua vita quando un bel giorno si ritrovò per terra in seguito ad una caduta da cavallo; è consapevole che quella caduta ha segnato una rottura con un modo di vivere per introdursi in un nuovo stile esistenziale; è altresì consapevole che quel momento della caduta a cavallo è stato uno spartiacque esistenziale che gli ha permesso di approdare a riva; è consapevole di essere entrato in un nuovo tempo, di aver intrapreso un nuovo viaggio. Bene, Paolo esorta i credenti a vivere questo nuovo percorso, ad incamminarsi verso nuove strade, ad intraprendere nuovi viaggi dell’anima. Sono i viaggi più avventurosi ma interiori, viaggi lunghi ma sicuri. 
Il tempio. Tra le diverse immagini con cui la Chiesa descrive se stessa ci sono quelle di Gerusalemme celeste e di tempio santo. È un chiaro rimando escatologico che orienta i nostri cuori a non fermarsi al mero materialismo. Dio non lo si può racchiudere in una struttura di pietra. Questa altra non è se non una raffigurazione, un rimando visibile ad una realtà più grande. Grande quanto l’amore. Quell’amore che non si vede ma c’è, lo si percepisce, lo si vive. La Chiesa stessa, quella universale, è espressione visibile di una realtà ancora più grande, è un rimando a quella realtà. Ed è per questo che noi credenti siamo chiamati a vivere l’amore verso questa Chiesa, a impegnarci con la nostra testimonianza di vita perché questa Chiesa terrestre sia realmente l’immagine perfetta della Chiesa celeste, a pregare insieme alla Chiesa per instaurare il regno di comunione, ad adoperarci per essa perché le sue pietre e i suoi ornamenti risplendano sempre, a lavorare per lei perché possa raggiungere la riva dei cuori naufragati dalla miseria umana. 
Non si può pensare a un tempio santo o alla Gerusalemme celeste senza guardare alla realtà in cui si vive. L’uomo, e quindi il credente, necessita dell’umano per farsi un’idea di ciò che è invisibile agli occhi umani. Prendersi cura della Chiesa è un impegno per noi cristiani. Amare la Chiesa deve essere un istinto naturale e non forzato. Lavorare per la Chiesa deve essere un servizio che ci appassiona. Vivere nella Chiesa deve farci sentire realmente a casa. Esprimersi nella Chiesa deve porci in atteggiamento di comunione e non farci sentire superiori a qualcuno. Amiamo questo tempio, amiamo questa Chiesa di oggi. Amiamola con le sue cicatrici e le sue ferite sanguinanti; amiamola perché nonostante le sue ferite ha voglia di vivere, trasmette la vita, annuncia la bellezza della vita. Amiamo la nostra vecchia Chiesa perché nonostante la sua longevità ha la capacità di vivere da giovane, di rinnovarsi, di purificarsi continuamente. Amiamo la nostra Chiesa perché pur in mezzo alle tempeste millenarie vive in pieno la sua missione, non ha mai rinunciato a trasmetterci la bellezza del Vangelo, la gioia dell’essere figli di Dio, la straordinaria avventura nel seguire le orme di Gesù Cristo. Amiamo la nostra Chiesa che ci fa sentire sempre avvolti dal vento inquietante e pure coinvolgente dello Spirito. 
Padre Onofrio Antonio Farinola
Sacerdote cappuccino

Commenti