«Dio non è dei morti, ma dei viventi» Commento al Vangelo del 6 novembre 2016, XXXII domenica T.O.

Il mese di novembre inizia con due particolari eventi liturgici, la solennità di tutti i santi e la commemorazione dei nostri fratelli e sorelle defunti. Questo mese, tra l’altro, prosegue con un via via di gente che si reca al cimitero per una preghiera sulla tomba del caro estinto, per portare un fiore, per accendere un cero. A cosa rimandano questi tre aspetti che contraddistinguono la visita di un cristiano al cimitero? Cosa vuol dire pregare davanti ad una lastra di marmo con la foto del proprio caro defunto? Cosa significa porre un fiore e accendere un cero da collocare sulla tomba del defunto? 


Pregare dinanzi alla lastra tombale di un defunto è esprimere la propria fede nella risurrezione. Pregare è vivere una relazione con Dio e, in quel momento dinanzi alla tomba del defunto, è vivere una relazione affettiva anche con il defunto stesso. La preghiera è quel filo rosso che lega il credente a Dio e anche ai cari estinti. Il fiore! Il fiore è sinonimo di bellezza, di eleganza e di amore. “Dillo con un fiore” recita una certa pubblicità in voga fino a qualche tempo fa. Dire con un fiore il proprio affetto, la propria stima, il proprio legame, la propria amicizia. Il fiore che rappresenta la bellezza, non è il meno indicato per rappresentare l’amore, e quindi un legame. La bellezza di un fiore, la sua eleganza, i suoi colori, la sua particolarità esprimono un legame di amore. Allora, portare i fiori da apporre alla lastra di una tomba vuol dire amore e legame, esprime il senso di affetto. Il fiore con i suoi colori e le sue particolarità originali è l’espressione di un sorriso, a volte celato da un momentaneo senso di tristezza e di dolore a causa della perdita della persona amata, o comunque benvoluta. 
E poi il cero, ovvero la luce. Quella luce che accompagna la vita del credente dal Battesimo alla morte. Riflettiamo, il giorno del Battesimo accanto al fonte battesimale si erge nella sua bellezza il cero pasquale, segno di Cristo Risorto, e di là il sacerdote accende un alto piccolo cero che consegna ai genitori del battezzato dicendo: “Ricevete la luce di Cristo, fiamma che sempre dovete alimentare”. Quella fiamma che non si spegne certamente con la “morte corporale”. Infatti quel cero resta accesa anche accanto alla bara il giorno del funerale. È la luce della fede, della speranza e dell’amore che nessun vento, nessun uragano, nessuna tromba d’aria sono capaci di spegnere. Accendendo un cero e sistemarlo sulla lastra di una tomba di un defunto è riaffermare questa fede, questa speranza e questo amore che non hanno mai fine. Fede, speranza e amore che nemmeno la morte debellano. 
La liturgia di questa domenica si inserisce perfettamente nel contesto del mese novembrino. Dalla prima lettura, passando per la seconda e giungendo al Vangelo c’è un costante richiamo alla vita eterna. Con convinzione i sette fratelli descritti dal libro dei Maccabei, torturati insieme alla loro mamma perché abiurino la fede, gridano la propria fede e la propria speranza: È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati. 
Nella seconda lettura Paolo parla di una consolazione eterna e una buona speranza. E la pagina evangelica lucana nel dialogo che intercorre tra Gesù e i sadducei ci propone il tema della vita eterna. I sadducei era una classe che non credeva affatto nella risurrezione. Gesù conclude: «Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui». 
Ci chiediamo: credo nella vita eterna? Cosa rimanda alla mia memoria di cristiano il senso della vita eterna? Coltivo la speranza? Dinanzi alle situazioni, anche le più terribili della vita, che atteggiamento anima il mio essere credente in Cristo? Temo la morte? Temo la vita eterna? Quale speranza nutro? 
Padre Onofrio Antonio Farinola
Sacerdote capucciono

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